Siamo la civiltà più istruita della storia, abbiamo a disposizione un mare di dati e nozioni, testi, corsi di formazione, guide di esperti, e il campo dell’educazione e della pedagogia non fa eccezione. Tant'è, c’è chi parla di eccesso di cognitività.
Di fatto, però, siamo anche la civiltà più fragile e insicura, e genitori ed educatori non hanno mai faticato tanto a fare il loro mestiere. Forse perché si corre più facilmente il rischio di sostituire l’azione educativa con la teoria, almeno nella misura in cui ci si limita ad enunciare principi e regole senza agire conseguentemente e congruamente.
Allora partiamo da un’ovvietà
neanche tanto ovvia. Un conto è allevare un figlio, altra cosa è ben-educarlo. Da
tempo si denuncia un generale stato di carenza o, peggio, emergenza educativa.
Non si entra nel merito, né si mette in discussione il bene che ogni genitore
vuole ai e per i propri figli. Ma possiamo chiederci semmai quali comportamenti
educativi questo bene deve innescare, perché le due cose non sempre vanno
assieme.
Alla domanda “Cosa significa
educare un figlio?” i più dotti citerebbero l’origine etimologica del
termine e-ducere, vale a dire tirar fuori le loro risorse personali, qualcuno
tirerebbe in ballo la trasmissione dei valori, altri assocerebbero l’educazione
alla libertà, altri ancora porrebbero l’accento sull’importanza dei desideri
dei figli, pochi forse sottolineerebbero l’importanza di educare al sacrificio
e ad affrontare le difficoltà della vita.
Vediamo solo qualche aspetto.
A pensarci, l’azione educativa nei confronti dei figli non può ridursi alla trasmissione dei valori sul piano cognitivo. Tutti siamo d’accordo sulla bellezza e bontà dei valori, il genitore però è chiamato ancor prima a trasmettere con l’esempio le virtù, che sono la concretizzazione del bene, offrendo contemporaneamente ai figli occasioni per incarnare nel quotidiano, così da far sì che impari a tradurre i valori in comportamenti.
Se manca questo passaggio, anche il più assiduo bombardamento verbale di ciò
che è doveroso, buono, giusto risulterà scarsamente efficace, sul piano
educativo. In pratica, i figli devono allenarsi, esercitarsi a fare il bene vedendo
che i genitori fanno lo stesso.
Se parliamo poi di educare alla libertà,
è opportuno accordarsi sul suo significato, tutt’altro che univoco. Sì, perché
la libertà non può essere intesa solo come spontaneità (la sua
estremizzazione porterebbe al comportamento animale), o come arbitrio decisionale
(giacchè non si può prescindere dalle conseguenze del proprio agire), o come autodeterminazione
(ogni scelta va sempre ricondotta alla relazione con gli altri). Non che
queste dimensioni non siano componenti della libertà, ma essa ha una
connotazione ben più profonda.
La libertà va intesa, infatti, come capacità di scegliere il bene. Essa corrisponde in ultima analisi alla scelta di agire nel bene, e questo a partire dal riconoscimento della dignità dell’essere umano.
Educare
alla e nella libertà insomma non può che portare il figlio ad assumere
comportamenti rispettosi della dignità, propria e altrui. E qui andrebbe aperta
una parentesi sull’educazione al rispetto di ogni persona e di ciò che lo circonda…
Educare non può prescindere poi dal concetto di limite. La pratica del disagio giovanile lo dimostra: laddove non c’è stato un accompagnamento all’accettazione - e anche alla frustrazione del limite - tutto per il figlio diventa lecito, indifferentemente opzionale, nel bene e nel male.
E qui non serve quasi sottolineare la differenza tra genitore autoritario
e genitore autorevole, solo quest’ultimo ha chance di centrare il bersaglio: è infatti colui
che sa dire, senza bisogno di urlare, dei sacrosanti e salvifici no,
ed è anche colui che per primo vi si sottomette.
Tutto questo allo scopo di aiutare il figlio a governare al meglio i propri desideri e a saper scegliere ciò che davvero nella vita merita la scelta.